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Raffaele Barbuto

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Trovarsi al cospetto dei lavori di Barbuto è un’esperienza insolita, che costringe quasi ad una osservazione dinamica: ti muovi, abbassi lo sguardo, ti allontani, senti la spinta a guardare ancora. Ti ritrovi di fronte a qualcosa che suscita domande, fa sorgere il desiderio di avere l’autore accanto per domandargli cosa, come e perché? Ma l’arte, si sa, ispira domande a cui è spesso difficile dare risposte, e quelle che ci si da sono sempre (ovviamente) tutte giuste. L’invito è quello di non arrendersi alla facilità di uno sguardo frettoloso e a proseguire un viaggio a favore di una più profonda ricerca di senso. Non essere insofferenti davanti al non detto dunque, ma attendere con pazienza che le cose si rivelino, godendo della piacevole sensazione di evolvere con esse.
Davanti alle sue opere si respira sempre una sensazione di quiete, un’ idea di sincerità priva di travestimento dove l’osservatore fa esperienza di un sentimento originario e puro, profondamente personale e umano.
L’opera diventa leggibile solo attraverso la sua ciclicità che per l’artista  rappresenta un ricongiungimento all’origine e mira a ripercorrere l’articolatissimo discorso sulla pittura e le sue finite ed infinite possibilità. Insomma non una “filosofia” ma un sorridente e soprattutto anti-intellettualistico sguardo alle origini come “chiusura del  cerchio”, lontana da mediazioni logico-razionali.
Una retroattività simbolica che si distingue chiaramente nella raffinata povertà della “fattura”, contribuendo a rendere l’opera viva e dunque mortale. Ecco quindi che le imperfezioni della materia risultano essere essenziali. Le superfici sporche, usurate, vecchie, danno una sensazione di provvisorietà ma anche, paradossalmente, di stabilità. Quella stabilità che sta nel perdurare, nel non finire, nel proseguire al termine di un ciclo ,un ciclo vitale nuovo, pronto ad indagare un altro spazio e un altro tempo.

AB-ORIGINE FORMA MENTIS
Nata a seguito del mio viaggio in Australia, la serie “Ab-Origine Forma Mentis” ha come obbiettivo quello di essere la congiunzione tra gli antichi valori estetici e “rituali” dell’artigianato aborigeno e  il processo di semplificazione e di recupero del passato.
Il fascino e la bellezza celati dietro a materiali semplici come stracci e cellulosa, acquistano un significato fondamentale; diventano cioè la rievocazione stessa di condizioni primordiali che costringono a mettersi in relazione con l’altro da sé ovvero, (come sostengono gli aborigeni) con “colui che non vediamo” ma che “vive in ciò che vede”.
Svincolati da sottolineature illustrative o forme grafiche, questi lavori non cercano l’effetto o lo stupore e neppure un plauso ammirato ma si rifanno a qualcosa di familiare, naturale e necessario come un’antica tradizione popolare. La raffinata bellezza proclamata dai colori antichi, sporchi e sbiaditi dal tempo (e da un intenso e imprevedibile processo di elaborazione), viene rievocata facendo dell’assimilazione e della stratificazione un vero e proprio “modus operandi”. Macchie, impronte e strappi improvvisi, hanno in questi lavori una dichiarata importanza ed individuano aree e campiture che richiamano sulla superfice il valore del reperto antico. Ciò che importa infatti è il processo creativo, le forze che plasmano la forma e non la riconoscibilità dei suoi esiti. Un’ulteriore semplificazione e “ritorno all’origine” di un linguaggio che, pur seguendo il principio e l’ambiguità del tempo, non ne è (e non dovrà mai esserne) contaminato.

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